LA RESPONSABILITÀ DEL SACERDOTE
PER L’EDIFICAZIONE SPIRITUALE DEI FEDELI
PER L’EDIFICAZIONE SPIRITUALE DEI FEDELI
Archimandrita Arsenios
Per lo sviluppo della nostra riflessione su
questa tematica, seguiremo il dialogo del nostro S. Padre Giovanni
Crisostomo “Sul sacerdozio”. In questo termine egli ha inglobato in
modo evidente presbiteri e vescovi, anche se, nel suo tempo, i
ministeri di vescovo, presbitero e diacono sono ormai ben distinti; il
vescovo per l’ordinazione è superiore ai presbiteri (Hom 11, 1 in 1 Tm:
PG 62, 553), anzi è il signore dei presbiteri (Hom 16, 1 in 1 Tm: PG
62, 586). Nell’opera il Crisostomo immagina un dialogo con Basilio, un
personaggio quasi certamente di fantasia; ad ogni modo il filo
conduttore è la difesa dello stesso Crisostomo presso questo suo
carissimo amico per essere fuggito di fronte alla proposta di essere
nominato vescovo. E questo dopo aver convinto Basilio ad accettare una
simile proposta. Tale occasione fornisce a Crisostomo l’opportunità di
parlare della grandezza e della gravissima responsabilità del
“sacerdozio”, di fronte alla quale le proprie consapevoli insufficienze
l’hanno portato a fuggire.
Per non perderci nei meandri delle argomentazioni crisostomiche, molto ricche di particolari e profonde, e così fornire un resoconto più facilmente memorabile di quanto egli sostiene in rapporto al nostro tema, sarà utile distinguere cinque idee principali che riassumono l’ideale sacerdotale tracciato da questo nostro santo e grande Padre sulla scorta delle Sacre Scritture e particolarmente degli insegnamenti dell’Apostolo Paolo. |
1) La responsabilità pastorale è legata a una continua lotta.
Cristo non ha detto a Pietro: “Se mi ami, digiuna,
dormi su nuda terra, veglia ininterrottamente, difendi gli oppressi,
sii padre degli orfani, e marito per la madre loro”; ma ha detto:
“Pascola le mie pecore”. Così, per curarle e difenderle, non si trova a
combattere con i lupi rapaci, o con i ladri o con varie malattie, ma
“contro i principi e le potestà, contro i dominanti di questo mondo
tenebroso, contro gli spiriti maligni dell’aria” (cf. Ef 6, 12) e poi
contro le opere della carne enumerate da S. Paolo: “prostituzione,
adulterio, fornicazione, sfrontatezza, idolatria, sortilegio,
inimicizie, contese, invidie, ira, risse, oltraggi, maldicenze,
orgoglio, sedizioni e altre più ancora”.
Quindi Crisostomo aggiunge: “Per quanto concerne il pastore degli animali, coloro che vogliono distruggere il gregge, quando vedono fuggire il custode, senza combattere con lui, si accontentano della rapina degli animali. Qui, invece, sebbene abbiano preso tutto il gregge, non risparmiano neanche il pastore ma più gli sono sopra e si accaniscono. Non cessano sino a quando l’abbiano vinto, o siano stati essi stessi vinti”.
Questo aspetto della responsabilità “sacerdotale”, presentato a chiare lettere nel libro II (cf. § 2), percorre tutta l’opera; e la metafora della lotta a più riprese viene utilizzata dal Crisostomo (alternata con quella del comandante della nave che affronta la tempesta) per illustrare i suoi argomenti, fino a giungere, nel libro VI (cf. §§ 11-12), ad una esplosione di questa immagine dalle tinte veramente raccapriccianti e tuttavia incapaci di descrivere a pieno la guerra contro il maligno: “Se fosse possibile che «l’anima», spogliata di questo corpo o anche con questo corpo, potesse con gli occhi liberamente e senza paura tutto lo schieramento di quello (del diavolo) e la guerra contro di noi, vedresti non torrenti di sangue, né cadaveri, ma tante stragi di anime e ferite così aspre che tutta quella descrizione di guerra che ti ho fatto poco fa sarebbe da credere giochi da fanciulli, uno scherzo più che una guerra”. Se le ferite riportate in guerra possono condurre alla morte del corpo e così una certa insensibilità, quelle riportate in questo combattimento spirituale tormentano continuamente l’anima con la cattiva coscienza fino a raggiungere poi la pena eterna. E se per ulteriore disgrazia qualcuno fosse insensibile alle ferite del diavolo, il danno sarebbe ancora più grande, perché l’insensibilità gli darebbe modo di ferire ancora trascinando in altri peccati. Se infine nella guerra materiale si hanno molte tregue per il cibo, il riposo della notte, lo svestire dell’armatura, “col maligno non è mai possibile deporre le armi, né prendere sonno … una delle due: o cadere e soccombere disarmato o rimanere sempre in piedi e armato e vigile. E quello sempre insiste col suo schieramento, spiando la nostra indolenza, facendo più attenzione lui alla nostra rovina, che noi alla nostra salvezza”.
Quindi Crisostomo aggiunge: “Per quanto concerne il pastore degli animali, coloro che vogliono distruggere il gregge, quando vedono fuggire il custode, senza combattere con lui, si accontentano della rapina degli animali. Qui, invece, sebbene abbiano preso tutto il gregge, non risparmiano neanche il pastore ma più gli sono sopra e si accaniscono. Non cessano sino a quando l’abbiano vinto, o siano stati essi stessi vinti”.
Questo aspetto della responsabilità “sacerdotale”, presentato a chiare lettere nel libro II (cf. § 2), percorre tutta l’opera; e la metafora della lotta a più riprese viene utilizzata dal Crisostomo (alternata con quella del comandante della nave che affronta la tempesta) per illustrare i suoi argomenti, fino a giungere, nel libro VI (cf. §§ 11-12), ad una esplosione di questa immagine dalle tinte veramente raccapriccianti e tuttavia incapaci di descrivere a pieno la guerra contro il maligno: “Se fosse possibile che «l’anima», spogliata di questo corpo o anche con questo corpo, potesse con gli occhi liberamente e senza paura tutto lo schieramento di quello (del diavolo) e la guerra contro di noi, vedresti non torrenti di sangue, né cadaveri, ma tante stragi di anime e ferite così aspre che tutta quella descrizione di guerra che ti ho fatto poco fa sarebbe da credere giochi da fanciulli, uno scherzo più che una guerra”. Se le ferite riportate in guerra possono condurre alla morte del corpo e così una certa insensibilità, quelle riportate in questo combattimento spirituale tormentano continuamente l’anima con la cattiva coscienza fino a raggiungere poi la pena eterna. E se per ulteriore disgrazia qualcuno fosse insensibile alle ferite del diavolo, il danno sarebbe ancora più grande, perché l’insensibilità gli darebbe modo di ferire ancora trascinando in altri peccati. Se infine nella guerra materiale si hanno molte tregue per il cibo, il riposo della notte, lo svestire dell’armatura, “col maligno non è mai possibile deporre le armi, né prendere sonno … una delle due: o cadere e soccombere disarmato o rimanere sempre in piedi e armato e vigile. E quello sempre insiste col suo schieramento, spiando la nostra indolenza, facendo più attenzione lui alla nostra rovina, che noi alla nostra salvezza”.
2) La responsabilità pastorale riguarda tutto il popolo
Circa questo aspetto della responsabilità
sacerdotale, l’arcivescovo di Costantinopoli, dopo averlo annunciato
nel libro II (cf § 3), scende nei dettagli per buona parte del libro
III (§§ 14-17) fornendoci indirettamente un quadro quotidiano della
vita ecclesiale del suo tempo, perché tratta di quei campi d’azione più
delicati in cui il ministro di Dio deve saper esercitare la sua carità
pastorale. Alcuni elementi di questa analisi hanno risvolti ancora
attuali: c’è innanzitutto il patrocinio delle vedove per il quale
occorre disinteresse verso le ricchezze, ma anche molta prudenza nel
distinguere i bisognosi, pazienza nel sopportare accuse ingiuste e
pettegolezzi e garbo nel portare soccorso; c’è poi l’accoglienza degli
ospiti e la cura degli infermi che richiedono assennatezza nel
procurare viveri e offerte, ma anche longanimità e solerzia nel
provvedere a tali bisogni; c’è ancora la cura delle Vergini, “un gregge
più regale degli altri”, bisognoso di una sorveglianza più rigorosa e
di una maggiore protezione, attività peraltro più difficili da
esercitarsi da parte del vescovo rispetto a un “padre secondo la
carne”. Infine, secondo le istituzioni del tempo, ci sono le contese
giudiziarie: l’imperatore
Costantino nel 318 aveva concesso alle parti in lite la facoltà di presentare la loro causa al vescovo la cui sentenza era definitiva e inappellabile, non lasciando più la possibilità di ricorrere al magistrato civile. Ebbene il vescovo deve impegnarsi non poco per convincere le due parti in modo da evitare il pericolo che i più deboli, non sentendosi protetti dalla Chiesa, se ne allontanino.
S. Giovanni Crisostomo allarga poi il discorso alle visite: “ desiderano la visita non solo gli ammalati, ma anche i sani e molti la reclamano non per riverenza … ma per onore e prestigio. Se capita che, per qualche necessità impellente, «il vescovo» visiti più assiduamente qualcuno dei più ricchi e potenti a vantaggio della Chiesa, subito viene accusato di servilismo e adulazione”. Mostrandosi poi un abile psicologo, il Crisostomo arriva a comprendere, in questa necessità del vescovo di essere equanime, anche il saluto che porge ai singoli fedeli e addirittura lo sguardo che rivolge loro e il modo come è atteggiato il suo volto.
Grande equilibrio interiore occorre a un vescovo che deve muoversi perciò fra una grande forza d’animo - da una parte - rispetto alle piccinerie e alle stoltezze della massa, e notevole avvedutezza - dall’altra parte- per fare tutto il possibile nel privare la gente di occasioni per parlare a vuoto. Questa analisi, infatti, va completata con quanto il Crisostomo presenta nel suo libro V al § 3: “Non è bello temere oltre misura le calunnie infondate (il capo necessariamente deve sopportare i rimproveri irragionevoli) né spaventarsi di esse, né semplicemente disprezzarle. Bisogna inoltre, anche se false e fatte da persone di poco conto, che si cerchi subito di soffocarle. Nulla fa crescere la fama, buona o cattiva, più della folla incontrollabile. Abituata ad ascoltare e a parlare senza riflettere, ripete superficialmente tutto ciò che capita, senza considerare se sia veritiero”. Quanto sono attuali queste parole nella nostra società dell’«immagine», dove capita di assistere sempre più spesso ad attacchi mediatici volti a delegittimare l’una o l’altra autorità! Ma per evitare di cadere nella tentazione del puro e semplice apparire, S. Giovanni aggiunge: “Se, pur avendo fatto tutto ciò i calunniatori non vogliono persuadersi, allora è da disprezzarli … Bisogna che il sacerdote si comporti con i suoi fedeli come un padre si comporta con i figli in assai tenera età. E come non ci curiamo se ci ingiuriano e ci percuotono e se piangono e nemmeno facciamo gran conto quando ridono e si rallegrano, così non è da gonfiarsi per le lodi né avvilirsi per i biasimi dei fedeli quando avvengono gratuitamente”.
Costantino nel 318 aveva concesso alle parti in lite la facoltà di presentare la loro causa al vescovo la cui sentenza era definitiva e inappellabile, non lasciando più la possibilità di ricorrere al magistrato civile. Ebbene il vescovo deve impegnarsi non poco per convincere le due parti in modo da evitare il pericolo che i più deboli, non sentendosi protetti dalla Chiesa, se ne allontanino.
S. Giovanni Crisostomo allarga poi il discorso alle visite: “ desiderano la visita non solo gli ammalati, ma anche i sani e molti la reclamano non per riverenza … ma per onore e prestigio. Se capita che, per qualche necessità impellente, «il vescovo» visiti più assiduamente qualcuno dei più ricchi e potenti a vantaggio della Chiesa, subito viene accusato di servilismo e adulazione”. Mostrandosi poi un abile psicologo, il Crisostomo arriva a comprendere, in questa necessità del vescovo di essere equanime, anche il saluto che porge ai singoli fedeli e addirittura lo sguardo che rivolge loro e il modo come è atteggiato il suo volto.
Grande equilibrio interiore occorre a un vescovo che deve muoversi perciò fra una grande forza d’animo - da una parte - rispetto alle piccinerie e alle stoltezze della massa, e notevole avvedutezza - dall’altra parte- per fare tutto il possibile nel privare la gente di occasioni per parlare a vuoto. Questa analisi, infatti, va completata con quanto il Crisostomo presenta nel suo libro V al § 3: “Non è bello temere oltre misura le calunnie infondate (il capo necessariamente deve sopportare i rimproveri irragionevoli) né spaventarsi di esse, né semplicemente disprezzarle. Bisogna inoltre, anche se false e fatte da persone di poco conto, che si cerchi subito di soffocarle. Nulla fa crescere la fama, buona o cattiva, più della folla incontrollabile. Abituata ad ascoltare e a parlare senza riflettere, ripete superficialmente tutto ciò che capita, senza considerare se sia veritiero”. Quanto sono attuali queste parole nella nostra società dell’«immagine», dove capita di assistere sempre più spesso ad attacchi mediatici volti a delegittimare l’una o l’altra autorità! Ma per evitare di cadere nella tentazione del puro e semplice apparire, S. Giovanni aggiunge: “Se, pur avendo fatto tutto ciò i calunniatori non vogliono persuadersi, allora è da disprezzarli … Bisogna che il sacerdote si comporti con i suoi fedeli come un padre si comporta con i figli in assai tenera età. E come non ci curiamo se ci ingiuriano e ci percuotono e se piangono e nemmeno facciamo gran conto quando ridono e si rallegrano, così non è da gonfiarsi per le lodi né avvilirsi per i biasimi dei fedeli quando avvengono gratuitamente”.
3) La responsabilità pastorale si esercita anzitutto mediante l’esempio
Ancora in un terzo libro il nostro Santo Padre descrive questo aspetto importantissimo della responsabilità pastorale.
Al § 10 leggiamo: “Di solito la moltitudine dei dipendenti guarda i costumi dei capi come immagine-modello assimilandosi a loro. Come potrà estinguere gli ardori di quelli, essendo egli stesso gonfio di ira? Chi della massa potrebbe desiderare di divenire subito moderato, quando vede il capo adirato? Non è possibile, non è possibile che i grandi difetti dei sacerdoti rimangano nascosti, se anche i piccoli diventano palesi … Le colpe degli umili, commesse come nell’ombra, rovinano solo chi le commette. L’errore di un uomo ragguardevole e noto a molti reca danno a tutti, rendendo, quelli che sono caduti, indolenti verso i sudori per le opere buone, e inducendo alla temerità quelli che vogliono attendere a se stessi Inoltre le colpe degli umili, anche se vengono alla luce, non danno piaga notevole alcuna. Quelli che siedono al vertice di tale carica, sono per prima cosa in vista di tutti, poi, anche se sbagliano in cose assai piccole, queste appaiono grandi agli altri. Tutti misurano la colpa non per la sua grandezza ma per la dignità di chi l’ha commessa”.
Al § 11, rinviando alla vigilanza continua che è parte del combattimento spirituale, S. Giovanni prosegue: “Sino a quando la vita del sacerdote è in tutto ben armonizzata, è fuori dalle insidie; ma se ti oscura anche una piccola parte, come è naturale per un uomo che attraversa il mare infido di questa vita, a nulla serviranno tutte le altre virtù per salvarlo
dalle lingue dei calunniatori. Quel piccolo errore offusca tutto il resto. Tutti vogliono giudicare il sacerdote non come un uomo fatto di carne e appartenente alla natura umana, ma come un angelo, e libero dalle comuni insufficienze … Quelli che prima, mentre era in auge, lo onoravano e lo rispettavano, quando vedono una piccola deficienza si preparano a destituirlo, non solo come un tiranno ma come qualcosa di peggio. E come quello dubita delle guardie del corpo, così anche lui teme specialmente i vicini e i suoi colleghi di ministero.
Nessun altro desidera così la sua carica, nessun altro conosce le sue cose come questi. Poiché sono vicini, se capita una cosa siffatta, se ne accorgono prima degli altri. Essi possono facilmente calunniare e trovare credito ed eliminare il calunniato ingigantendo le cose piccole”.
Al § 10 leggiamo: “Di solito la moltitudine dei dipendenti guarda i costumi dei capi come immagine-modello assimilandosi a loro. Come potrà estinguere gli ardori di quelli, essendo egli stesso gonfio di ira? Chi della massa potrebbe desiderare di divenire subito moderato, quando vede il capo adirato? Non è possibile, non è possibile che i grandi difetti dei sacerdoti rimangano nascosti, se anche i piccoli diventano palesi … Le colpe degli umili, commesse come nell’ombra, rovinano solo chi le commette. L’errore di un uomo ragguardevole e noto a molti reca danno a tutti, rendendo, quelli che sono caduti, indolenti verso i sudori per le opere buone, e inducendo alla temerità quelli che vogliono attendere a se stessi Inoltre le colpe degli umili, anche se vengono alla luce, non danno piaga notevole alcuna. Quelli che siedono al vertice di tale carica, sono per prima cosa in vista di tutti, poi, anche se sbagliano in cose assai piccole, queste appaiono grandi agli altri. Tutti misurano la colpa non per la sua grandezza ma per la dignità di chi l’ha commessa”.
Al § 11, rinviando alla vigilanza continua che è parte del combattimento spirituale, S. Giovanni prosegue: “Sino a quando la vita del sacerdote è in tutto ben armonizzata, è fuori dalle insidie; ma se ti oscura anche una piccola parte, come è naturale per un uomo che attraversa il mare infido di questa vita, a nulla serviranno tutte le altre virtù per salvarlo
dalle lingue dei calunniatori. Quel piccolo errore offusca tutto il resto. Tutti vogliono giudicare il sacerdote non come un uomo fatto di carne e appartenente alla natura umana, ma come un angelo, e libero dalle comuni insufficienze … Quelli che prima, mentre era in auge, lo onoravano e lo rispettavano, quando vedono una piccola deficienza si preparano a destituirlo, non solo come un tiranno ma come qualcosa di peggio. E come quello dubita delle guardie del corpo, così anche lui teme specialmente i vicini e i suoi colleghi di ministero.
Nessun altro desidera così la sua carica, nessun altro conosce le sue cose come questi. Poiché sono vicini, se capita una cosa siffatta, se ne accorgono prima degli altri. Essi possono facilmente calunniare e trovare credito ed eliminare il calunniato ingigantendo le cose piccole”.
Ad una lettura superficiale, potrebbe sembrare che la
dura vigilanza che il sacerdote deve avere sulla sua condotta sia
legata esclusivamente al giudizio degli altri e alla ricerca di una
buona fama. In realtà il Crisostomo è preoccupato anzitutto dello
scandalo che il cattivo esempio può arrecare alla comunità, ma non di
meno è preoccupato per la salvezza
eterna del sacerdote. Tant’è vero che col rischio di sembrare contraddittorio rispetto a quanto sostiene in questo libro III, nel libro VI invece, l’ultimo, si sofferma proprio sulla maggiore gravità delle colpe di cui si può macchiare il ministro del Signore. Al § 8 si legge, sulla scorta del profeta Amos: “E prima dei profeti volendo, a proposito dei sacrifici, dimostrare che le colpe ricevono maggior castigo quando siano commesse dai sacerdoti che dai privati, ordina di offrire per i sacerdoti un sacrificio quanto per tutto il popolo. Questo null’altro vuol dimostrare che le piaghe del sacerdote hanno bisogno di una maggiore cura e tanta quanta per il popolo tutto. Non vi sarebbe bisogno di una più grande se non fossero più gravi. Sono più gravi, non per natura, ma per la dignità del sacerdote che ardisce ciò …”. Sembra di sentire in queste parole proprio un eco di quanto Gesù Cristo stesso afferma nel Vangelo: “A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (cf Lc 12, 48).
eterna del sacerdote. Tant’è vero che col rischio di sembrare contraddittorio rispetto a quanto sostiene in questo libro III, nel libro VI invece, l’ultimo, si sofferma proprio sulla maggiore gravità delle colpe di cui si può macchiare il ministro del Signore. Al § 8 si legge, sulla scorta del profeta Amos: “E prima dei profeti volendo, a proposito dei sacrifici, dimostrare che le colpe ricevono maggior castigo quando siano commesse dai sacerdoti che dai privati, ordina di offrire per i sacerdoti un sacrificio quanto per tutto il popolo. Questo null’altro vuol dimostrare che le piaghe del sacerdote hanno bisogno di una maggiore cura e tanta quanta per il popolo tutto. Non vi sarebbe bisogno di una più grande se non fossero più gravi. Sono più gravi, non per natura, ma per la dignità del sacerdote che ardisce ciò …”. Sembra di sentire in queste parole proprio un eco di quanto Gesù Cristo stesso afferma nel Vangelo: “A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (cf Lc 12, 48).
4) La responsabilità pastorale si esercita, non secondariamente, con la parola.
Soprattutto nel libro IV dell’opera il nostro Santo
Padre Crisostomo affronta le problematiche legate a questo aspetto del
ministero, che egli si premura di far capire come non è secondario.
Al § 11 troviamo: “La condotta di vita potrebbe molto
contribuire alla pratica dei precetti. Ma non direi che da sola possa
recare ogni miglioramento. Quando l’urto è contro i principi e tutti
combattono partendo dalle Scritture, la condotta di vita quale forza
allora può mostrare? Quale vantaggio dai tanti sudori se dopo quegli
sforzi qualcuno per la sua troppa ignoranza cadendo nell’eresia, si
taglia dal corpo della Chiesa? Questo so che è capitato a molti. Quale
profitto dalla sua fermezza? Nessuno, come nessuno da una fede sana,
essendo la vita corrotta”. Quanta attualità hanno ancora queste parole
nella nostra civiltà del “fare” e del “correre” che tante volte investe
anche lo stile di vita del loro ministero!
Ma seguiamo ancora S. Giovanni: “Per questo bisogna che chi ha il compito di ammaestrare gli altri sia soprattutto esperto in tutte queste controversie. Se anche egli rimanga saldo senza subire danno dai suoi contraddittori, tuttavia la moltitudine degli inesperti che da lui dipende, vedendo sconfitto il capo, che non ha nulla da dire ai contraddittori, attribuirà la sconfitta non alla sua debolezza ma al guasto che è nel dogma. Per l’insufficienza di uno gran parte del popolo è tratta all’estrema rovina. Sebbene non stiano completamente con gli avversari, sono costretti a dubitare di ciò in cui potevano avere fiducia e non possono aderire con la stessa fermezza a quanto avevano accolto con fede incrollabile.
Ma per la sconfitta del maestro si insinua negli animi una tale tempesta da finire in un rovinoso naufragio”.
Questa convinzione del Crisostomo risale al suo modello ideale di ministero sacerdotale che è l’Apostolo Paolo il quale, specialmente nelle sue lettere chiamate “pastorali”, evidenzia tutta l’importanza fondamentale che riveste nell’edificazione e nella vita della Chiesa, la “sana” dottrina: l’insegnamento che attinge alle pure fonti della Scrittura e che forma, istruisce e corregge l’uomo di Dio e la Comunità, portando “sanità” nell’anima e guidando in maniera infallibile nella volontà divina. Su questo il Crisostomo tratta diffusamente nel paragrafo precedente dove conclude: “La vetta più alta dell’insegnamento si ha quando con le opere e con le parole si conducono i discepoli alla vita santa ordinata da Cristo. Il fare non basta a insegnare. Il precetto non è mio ma del Salvatore stesso: Chi avrà operato ed insegnato, sarà chiamato grande (cf Mt 5, 19). Se operare fosse insegnare, la seconda parte sarebbe superflua. Bastava dire: « chi avrà solo operato». Ma il distinguere l’una e l’altra cosa dimostra che uno è il compito dell’opera e uno quello della parola, che l’una ha bisogno dell’altra per l’edificazione perfetta …”.
Il Crisostomo, molto sensibile alla responsabilità dell’insegnare al popolo e della predicazione, tratta in varie parti di quest’opera, il ministero della Parola come principale compito del “sacerdote”, per il cui svolgimento egli deve attrezzarsi esercitandosi nell’arte retorica – senza cadere nei lacci della vanagloria – ma, soprattutto, nella conoscenza delle Sacre Scritture. Tuttavia proprio nel libro IV, a sostengo della sua tesi circa la necessità comprimaria dell’insegnamento insieme all’esempio di una vita santa, nei §§ 6 e 7 passa brevemente in rassegna le eresie che in quel tempo imperversavano nella Chiesa con grande danno di tutti i fedeli: i Manichei e i Fatalisti, Valentino e Marcione, Sabellio, Ario e Paolo di Samosata, senza contare le pratiche misteriosofi che pagane che sopravvivevano alla nascita e alla diffusione del Cristianesimo (divinazione, magia, astrologia) e che continuavano ad esercitare il loro influsso nefasto. E conclude: “Per tutto questo non si ha altro aiuto che quello della parola. Se qualcuno è priva di questa risorsa, le anime degli uomini da lui dipendenti, alludo a quelli più deboli e più curiosi, non si troveranno meglio dei navigli continuamente percossi dalla tempesta. Perciò bisogna che il sacerdote faccia di tutto per guadagnarsi una tale forza”. In sostanza l’idea errata di Dio (Trinità, mistero dell’Incarnazione) porta gli uomini ad un cammino dell’esistenza che va fuori della Sua volontà e quindi della salvezza. L’attualità della sottolineatura del Crisostomo, da questo punto di vista, consiste proprio in questa intuizione: oggi che le eresie non hanno più quei fondatori prima ricordati, non per questo sono meno pericolose per il popolo cristiano di cui sovvertono sia la fede che la morale, facendolo un po’ alla volta deviare. Ancora oggi il “sacerdote” deve prepararsi ad affrontare i nuovi Areopaghi e deve avere il coraggio di difendere la Verità del Vangelo dalla pletora delle opinioni diffuse e dominanti.
Ma seguiamo ancora S. Giovanni: “Per questo bisogna che chi ha il compito di ammaestrare gli altri sia soprattutto esperto in tutte queste controversie. Se anche egli rimanga saldo senza subire danno dai suoi contraddittori, tuttavia la moltitudine degli inesperti che da lui dipende, vedendo sconfitto il capo, che non ha nulla da dire ai contraddittori, attribuirà la sconfitta non alla sua debolezza ma al guasto che è nel dogma. Per l’insufficienza di uno gran parte del popolo è tratta all’estrema rovina. Sebbene non stiano completamente con gli avversari, sono costretti a dubitare di ciò in cui potevano avere fiducia e non possono aderire con la stessa fermezza a quanto avevano accolto con fede incrollabile.
Ma per la sconfitta del maestro si insinua negli animi una tale tempesta da finire in un rovinoso naufragio”.
Questa convinzione del Crisostomo risale al suo modello ideale di ministero sacerdotale che è l’Apostolo Paolo il quale, specialmente nelle sue lettere chiamate “pastorali”, evidenzia tutta l’importanza fondamentale che riveste nell’edificazione e nella vita della Chiesa, la “sana” dottrina: l’insegnamento che attinge alle pure fonti della Scrittura e che forma, istruisce e corregge l’uomo di Dio e la Comunità, portando “sanità” nell’anima e guidando in maniera infallibile nella volontà divina. Su questo il Crisostomo tratta diffusamente nel paragrafo precedente dove conclude: “La vetta più alta dell’insegnamento si ha quando con le opere e con le parole si conducono i discepoli alla vita santa ordinata da Cristo. Il fare non basta a insegnare. Il precetto non è mio ma del Salvatore stesso: Chi avrà operato ed insegnato, sarà chiamato grande (cf Mt 5, 19). Se operare fosse insegnare, la seconda parte sarebbe superflua. Bastava dire: « chi avrà solo operato». Ma il distinguere l’una e l’altra cosa dimostra che uno è il compito dell’opera e uno quello della parola, che l’una ha bisogno dell’altra per l’edificazione perfetta …”.
Il Crisostomo, molto sensibile alla responsabilità dell’insegnare al popolo e della predicazione, tratta in varie parti di quest’opera, il ministero della Parola come principale compito del “sacerdote”, per il cui svolgimento egli deve attrezzarsi esercitandosi nell’arte retorica – senza cadere nei lacci della vanagloria – ma, soprattutto, nella conoscenza delle Sacre Scritture. Tuttavia proprio nel libro IV, a sostengo della sua tesi circa la necessità comprimaria dell’insegnamento insieme all’esempio di una vita santa, nei §§ 6 e 7 passa brevemente in rassegna le eresie che in quel tempo imperversavano nella Chiesa con grande danno di tutti i fedeli: i Manichei e i Fatalisti, Valentino e Marcione, Sabellio, Ario e Paolo di Samosata, senza contare le pratiche misteriosofi che pagane che sopravvivevano alla nascita e alla diffusione del Cristianesimo (divinazione, magia, astrologia) e che continuavano ad esercitare il loro influsso nefasto. E conclude: “Per tutto questo non si ha altro aiuto che quello della parola. Se qualcuno è priva di questa risorsa, le anime degli uomini da lui dipendenti, alludo a quelli più deboli e più curiosi, non si troveranno meglio dei navigli continuamente percossi dalla tempesta. Perciò bisogna che il sacerdote faccia di tutto per guadagnarsi una tale forza”. In sostanza l’idea errata di Dio (Trinità, mistero dell’Incarnazione) porta gli uomini ad un cammino dell’esistenza che va fuori della Sua volontà e quindi della salvezza. L’attualità della sottolineatura del Crisostomo, da questo punto di vista, consiste proprio in questa intuizione: oggi che le eresie non hanno più quei fondatori prima ricordati, non per questo sono meno pericolose per il popolo cristiano di cui sovvertono sia la fede che la morale, facendolo un po’ alla volta deviare. Ancora oggi il “sacerdote” deve prepararsi ad affrontare i nuovi Areopaghi e deve avere il coraggio di difendere la Verità del Vangelo dalla pletora delle opinioni diffuse e dominanti.
5) La responsabilità pastorale si manifesta nell’arte della persuasione
Un ultimo aspetto riguardante la responsabilità del
sacerdote nell’edificazione spirituale dei fedeli è l’arte della
persuasione: un aspetto che rende particolarmente vivo e interessante,
per la vita ecclesiale di oggi, il “De sacerdotio”. Si tratta di una
caratteristica che in qualche modo poggia su tutte le altre e le
riassume in sé: il ministro di Dio con l’esempio e la parola, anzi la
Parola, deve saper arrivare proprio al cuore di tutti! In questo senso
il suo servizio è un’arte. Crisostomo insiste molto sulla capacità di
persuasione: l’intera sua opera ne risulta intrisa e permeata, anzi
l’arte della persuasione è insita nel dire stesso del nostro Santo
Padre che riesce convincente e accattivante già verso il lettore
portandolo a prendere sul serio i contenuti che propone e ad uniformare
ad essi la propria vita. Tutta l’opera del sacerdote si “gioca” sul
filo sottile di questa arte di intessere rapporti con gli altri e di
saperli coltivare.
Nel libro II vi dedica il § 3 in modo specifico, per poi riprendere più volte l’argomento da altri punti di vista. In questo citato testo leggiamo: “Non è possibile curare tutti gli uomini con la stessa disinvoltura con la quale il pastore cura la pecora. Anche qui è da legare, da evitare l’alimento, da bruciare e da tagliare. Ma la facoltà di accogliere la medicina non risiede in chi porge il farmaco, bensì nell’infermo. Ben intendendo ciò, quel mirabile uomo disse ai Corinzi: Non siamo fatti per trattare da padroni della vostra fede, ma per cooperare alla vostra consolazione (cf 2 Cor 1,24). Soprattutto ai cristiani non è permesso correggere con la forza gli errori dei colpevoli. I magistrati civili quando sottomettono alle leggi i malfattori mostrano grande autorità impedendo ai riluttanti di agire a loro modo. Qui, invece, a rendere migliore qualcuno occorre non la forza, ma la persuasione. Dalle leggi non ci è dato il potere di costringere i colpevoli, e se anche l’avessero dato, non avremmo dove usare la forza, dando Dio, la corona, non a quelli che si allontanano dal male per necessità, ma per propria determinazione. Per questo occorre grande abilità perché volentieri gli infermi si persuadano a sottoporsi alle cure dei sacerdoti; non solo, ma che vedano pure il vantaggio della cura”.
Nel libro II vi dedica il § 3 in modo specifico, per poi riprendere più volte l’argomento da altri punti di vista. In questo citato testo leggiamo: “Non è possibile curare tutti gli uomini con la stessa disinvoltura con la quale il pastore cura la pecora. Anche qui è da legare, da evitare l’alimento, da bruciare e da tagliare. Ma la facoltà di accogliere la medicina non risiede in chi porge il farmaco, bensì nell’infermo. Ben intendendo ciò, quel mirabile uomo disse ai Corinzi: Non siamo fatti per trattare da padroni della vostra fede, ma per cooperare alla vostra consolazione (cf 2 Cor 1,24). Soprattutto ai cristiani non è permesso correggere con la forza gli errori dei colpevoli. I magistrati civili quando sottomettono alle leggi i malfattori mostrano grande autorità impedendo ai riluttanti di agire a loro modo. Qui, invece, a rendere migliore qualcuno occorre non la forza, ma la persuasione. Dalle leggi non ci è dato il potere di costringere i colpevoli, e se anche l’avessero dato, non avremmo dove usare la forza, dando Dio, la corona, non a quelli che si allontanano dal male per necessità, ma per propria determinazione. Per questo occorre grande abilità perché volentieri gli infermi si persuadano a sottoporsi alle cure dei sacerdoti; non solo, ma che vedano pure il vantaggio della cura”.
Questa dote fondamentale interpella il ministro del
Signore sulla propria formazione umana e spirituale: in varie parti
Crisostomo annota la diversità tra le virtù monastiche riguardanti un
cristiano che deve vivere in solitudine o, al più con pochi altri, e
quelle del sacerdote che deve essere l’uomo delle relazioni con gli
altri.
Al § 12 del libro III leggiamo: “Ho conosciuto molti
che per tutta la vita erano stati rinchiusi e si consumavano nei
digiuni i quali, sino a quando stavano per sé soli e attendevano a loro
stessi, furono meritevoli del Signore e ogni giorno aggiungevano una
parte non piccola alla perfezione. Non appena vennero tra la massa e
furono costretti a correggere le stoltezze dei molti, alcuni sin da
principio erano impari a quest’opera. Altri forzati a rimanere, deposta
la diligenza iniziale, si procurarono molti guai senza recare alcun
giovamento
alle persone …”.
alle persone …”.
Il Crisostomo, pur essendo stato entusiasta della
vita monastica, è votato al sacerdozio. Egli stesso dice che, se per un
servizio ecclesiale più fecondo, gli si fosse lasciata la scelta tra
il governo della Chiesa e la vita monastica, avrebbe preferito mille
volte il governo della Chiesa (cf libro VI, § 5). A questo punto però
non si comprende più la sua fuga dalla carica episcopale, evento che ha
dato spunto al dialogo con Basilio e quindi all’opera: solo la sua
profonda umiltà e la sua autentica santità ci illuminano su questa
apparente contraddizione che egli stesso avrà risolto quotidianamente
tenendo presente le sue umane povertà e il suo grande amore per Cristo
al fine di servire al meglio il gregge affidato alle sue cure.
Conclusione
Emerge chiaramente da questa rassegna il senso di
servizio e di responsabilità con cui al tempo del Crisostomo veniva
esercitata l’autorità nella Chiesa: un punto di riferimento validissimo
ancora per noi oggi. Il nostro S. Padre ci affascina con il suo
argomentare così vicino a noi e così concreto da sembrare il frutto di
una riflessione prolungata su una vasta esperienza di vita e di
ministero episcopale. Tant’è che non sono mancati i tentativi di
collocare la datazione di quest’opera quasi alla conclusione della sua
vita terrena: tentativi falliti che ne accrescono il fascino misterioso
e la simpatia anche in noi lettori del XXI secolo.